L’opinione dello speleo
Speleologia di esplorazione e speleologia di ricerca: miti sfatati e visione futura

Giugno dello scorso anno: un nostro bravo speleologo, Marco Meneghini, ha razionalmente commentato ciò che emergeva dalla lettura de La Gazzetta, in sostanza, come appariva la speleologia regionale. Dall’incredibile lista d’appuntamenti per la didattica, corsi, riunioni, mostre, presentazioni, rinfreschi, eccetera, capaci – come diceva lui – di creare “ingorghi”, dalla confusione tra comitati, coordinamenti, eccetera, e così avanti, egli, sempre razionalmente, considerava che “esplorazioni e ricerche, come rilevato dalla stessa redazione, rimangono a margine del panorama speleologico complessivo”. Emblematicamente, poi, egli si chiedeva se “il quadro della speleologia regionale fosse così deprimente”, e subito dopo se “la realtà fosse invece un’altra”. Intendendola più positiva? Giacché invocava, con un dovuto forse, una visione distorta data dal modo di comunicare.

Io sono da lungo tempo convinto che, in un ambiente fattualmente conservatore come quello speleologico regionale (dovrebbe esser l’opposto!), i mali vadano discussi; del resto la psicoanalisi insegna. Se analizziamo a fondo la questione della speleologia regionale (io sono più ferrato su quella triestina; scusatemi quindi se cadrò in alcune generalizzazioni), direi che, paradossalmente, non è che esplorazioni e ricerche proprio non si facciano. Forse, invece, non si fanno bene o nel modo giusto. Certo, di fronte ai fasti dei decenni passati (qui parlo soprattutto della speleologia triestina, e più che altro in senso quantitativo), ovviamente rapportati all’epoca, il confronto non è dei migliori: un assunto – questo – che bisogna pur accettare. Più che di mancanze, che purtroppo sono incolmabili (se non altro per il calo numerico di chi si avvicina alla speleologia, e vi rimane) parliamo di distorsioni, giacché le distorsioni possono essere, sì, raddrizzate e corrette. Magari con difficoltà, ed in tanti anni, ma la partita non è perduta in partenza.

Esplorazione e ricerca – o meglio “speleologia di esplorazione” e “speleologia di ricerca” secondo il moderno linguaggio – sono i due pilastri della speleologia (un principio che ho espresso più volte e che, bene o male, viene condiviso); tutto il resto, se pur importante – e ribadisco importante, non è nient’altro che conseguenza. L’esplorazione, oggi, difetta di quella massa critica (leggi risorse umane) che un tempo, per lo meno, sopperiva ad altri tipi di mancanze. Tra i difetti e le lacune dell’attuale esplorazione (leggi esplora e rileva bene), lo scarso collegamento con chi fa ricerca. Cominciano, timidamente e sempre troppo tardi, a prender piede le collaborazioni intergruppi, o meglio soprattutto le collaborazioni tra speleologi che, per l’esplorazione di una determinata grotta, attingono necessariamente al parco attrezzi di un determinato gruppo. L’idea non è sbagliata, più che altro dettata dalla necessità, ragion per cui è importante che sia i singoli speleologi sia i singoli gruppi non confliggano i vari interessi ma, intelligentemente, colgano i lati positivi ed accettino la condivisione dei risultati. Tuttavia, rare sono in questi casi le azioni sinergiche con la ricerca, se non su particolari problematiche le quali più che dal comparto esplorativo nascono da quello della ricerca.

La ricerca, da noi, soffre terribilmente di un suo riconoscimento ad alto livello. Esprimendo per esteso il pensiero, direi che la situazione è drammatica. Per far comprendere pienamente il concetto, un’immagine speculare: si contano sulle dita di una mano (forse addirittura monca) i lavori pubblicati su riviste internazionali, specializzate, ad alta qualificazione (dove il referaggio e l’accettazione sono drastici), dichiarate tali dagli organismi di ricerca, e che erogano punteggi (ciò è basilare per chi intraprende una carriera scientifica, ed è comunque il riconoscimento della validità del lavoro). Da noi, il 99% dei lavori sono pubblicati su riviste “fatte in casa”, la stragrande delle volte in italiano (quindi all’estero non le legge nessuno), con scarsissima diffusione, escluse dai circuiti delle biblioteche internazionali on-line; riviste dove i comitati scientifici sono inesistenti, o quasi poiché se esistono sono “domestici”. Lo affermo con serenità io che, fino a poco fa, dirigevo una rivista di speleologia scientifica. Se, non dico in un secolo, ma negli ultimi trent’anni, la nostra speleologia non è riuscita in ciò, ci sarà pure un motivo. Oltre che all’ovvia modesta levatura dei ricercatori che abbiamo avuto (magari degnati di sproporzionata considerazione a livello locale, ma che sul panorama internazionale contano “0”: tanto per dire che i Boegan ed i Maucci non ci sono più), tra i vari motivi ci sono, per quanto riguarda la speleologia dei gruppi, l’incapacità di gestire riviste di questo genere, poi la scarsa propensione dei vari direttori delle nostre riviste (o comunque di quella cerchia di persone che per responsabilità varie hanno avuto titolo su questi scenari) a confrontarsi con il “mondo” (leggi in questo caso con la ricerca che conta). Con ciò non voglio dire che i gruppi non debbono fare i loro bollettini e le loro riviste, e neanche che si debbano snobbare i vari incontri nazionali minori: sarebbe una sciocca e immotivata mortificazione di tutto un mondo, quello dei gruppi, che è per il 99% stupendo volontariato e, credo, mai potrà essere diverso. Tra l’altro, il “mondo” in cui mi riconosco. Sono – anzi – occasioni, momenti, di diffusione dell’informazione, d’incontro, ed anche, certamente, opportunità per lo speleologo (o lo studioso in generale) per pubblicare studi, relazioni, e così via, in questo caso commisurati alla qualità dell’intervento o del dato presentato. Ma la valenza però, indefettibilmente, sarà quella che ho illustrato. Personalmente, dopo oltre quarant’anni d’esplorazioni e ricerche, ho optato per il futuro (sicuramente tardivamente … perciò ho sbagliato in passato) verso la scelta più difficile; che ovviamente m’impegnerà di più (però bisogna onestamente aggiungere che io, per il lavoro che faccio, ne ho la possibilità). Torniamo, ora, strettamente all’oggetto. Uno degli aspetti sostanziali della speleologia sta proprio l’interconnessione tra esplorazione e ricerca. È fuor di dubbio che ancor oggi, ma probabilmente sempre, moltissima speleologia di ricerca si faccia, e si farà (e non potrebbe esser altrimenti), all’interno dei gruppi grotte o in strettissima sintonia con questi, anche se chiaramente gli “strumenti” della ricerca (intellettuali e strumentali veri e propri) non possano che esser reperiti altrove. Ne sono convinto, anche se qualcuno (nella ricerca) afferma il contrario. Difetta, secondo la mia esperienza, la propensione nei nostri gruppi di rivolgersi al mondo della ricerca, e ciò è grave, probabilmente legato ad un abbassamento percettivo e culturale generale dell’attuale classe dirigente del problema speleologia (una visione non a 360°). Cioè, cosa è la speleologia e quali sono gli obiettivi ed i mezzi per attuarla. Per contro, salvo alcuni casi, non è che, storicamente, il mondo della ricerca – quando si è rivolto ai gruppi grotte – abbia avuto qui da noi un atteggiamento sempre di pari dignità con conseguenti azioni d’equilibrio e condivisione reale del “prodotto”. Oggi, tuttavia, il confronto e le sinergie sono e possono essere molto diversi rispetto un tempo. Ormai da un paio di decenni, la ricerca scientifica viene pesantemente fatta oltre che dalle università, pure da una moltitudine di altri centri, istituti, statali, regionali, musei, osservatori, società di diritto privato riconosciute dal MIUR, eccetera. Il panorama è, a mio avviso, fondamentalmente cambiato e gli speleologi o i gruppi grotte, con un po’ d’informazione, possono attingere ed essere propositivi, e soprattutto possono scegliere. Non è detto che debbano interpellare strutture locali, anzi, vadano a scegliere quelle che per la reale specializzazione, in Italia ed all’estero, possono essere confacenti ai loro scopi. Cosa che però i gruppi grotte, praticamente, ancora non fanno. Scarsa, palese, sinergia tra speleologia di esplorazione e speleologia di ricerca si ritrova nell’impostazione generale datasi dalla stessa Federazione, che è benemerita per tante cose, ma carente per alcuni aspetti basilari. Sono anni che si parla di una “commissione per la ricerca”, ma nulla si è fatto; del resto, mi risulta che nelle linee guida per i contributi sulla L.R. 27/66 (sviluppata in ambito Federazione, oltre che dagli uffici regionali) la ricerca sia il fanalino di coda. È una visione, ma soprattutto una “concezione”, assai distorta della speleologia. Logicamente, sono conscio che una “commissione ricerca” non possa assolutamente risolvere i problemi reali della nostra speleologia, ma forse una mano nella diffusione dell’informazione, a servizio dei gruppi, cioè dei centri in cui si fa il 99,9% della speleologia di esplorazione, la poteva timidamente dare. Non è l’istituzione di una commissione in più o in meno che possa far la differenza (occasioni d’incontro – come ricordava proprio Meneghini – tanto ce ne sono in sovrabbondanza), ma è semplicemente il segno del subentrare di una visione della speleologia che non è più a 360° che preoccupa.

La riformazione di una coscienza che va perdendosi, l’insegnamento di quella che è una moderna speleologia, cioè mezzi, strumenti, sinergia, tra “speleologia di esplorazione” e “speleologia di ricerca”, dovranno essere a mio avviso tra le principali motivazioni personali e collettive, nel nostro ambiente, connesse con la crescita culturale speleologica generale, indirizzando, nelle azioni concrete e nella consapevolezza di una responsabilità, sia quegli speleologi che già questa formazione possiedono attivando in loro una cultura del “dare”, sia quei quadri dirigenti, nei gruppi, che vanno formandosi, ma che della mancanza di quel necessario bagaglio culturale “soffrono”, perciò attivando in loro una cultura del “chiedere e chiedersi”, dato che costituiranno il nostro futuro. Per non restare indietro.

Rino Semeraro