Nel numero 101 de La Gazzetta, Rino Semeraro dà voce a quella che mi sembra essere una sensazione comune a diversi speleologi. Io stesso, nell’esaminare la mia vita speleologica, mi rendo conto che negli ultimi dieci anni ho partecipato a più riunioni, conferenze, inaugurazioni che ad uscite in grotta, dando contributi limitatissimi alla conoscenza dei fenomeni carsici ipogei.
Il fenomeno che coinvolge la speleologia regionale è complesso. La speleologia esplorativa probabilmente soffre della mancanza di uomini e di grotte facilmente individuabili. Il turnover di speleologi sembra essere di molto diminuito e l’età media dei partecipanti ai corsi si é alzata. Si invocano crisi cicliche decennali che colpiscono ogni gruppo, con regolarità da un secolo e mezzo, ma in verità la crisi è strutturale: ai ragazzi di oggi della speleologia non importa molto. I gruppi di ventenni dei tempi passati nascevano e crescevano in un altro panorama culturale e sociale. Le grotte “facili”, poi, oggi mancano. In più di un secolo tutti gli imbocchi evidenti e posti in zone facilmente raggiungibili sono stati esplorati; rimangono buchetti tortuosi in zone a quattro ore di marcia dall’auto, selettivi. Sono grotte che richiedono, per essere scoperte ed esplorate, quello spirito di sacrificio che inizia a venir meno, ma soprattutto quelle conoscenze su carsismo e geologia in generale che quasi sempre mancano. Mi ricollego in questo punto al problema della speleologia di ricerca. Durante l’ultimo incontro di speleologia, a Frasassi, con diversi amici abbiamo convenuto che in Italia sembra sia diminuita moltissimo la cultura della speleologia. Non parlo di mancanza di specialisti, quelli sono sempre stati pochi, ma piuttosto della mancanza nello speleologo medio di conoscenze che fino a vent’anni fa erano patrimonio comune di tutti coloro che andavano in grotta. Molto di ciò che so sui fenomeni carsici l’ho appreso da mio padre, il quale a sua volta l’aveva imparato facendo speleologia ed avendo la fortuna di incontrare il professor Gortani, all’epoca presidente del CSIF. Tutti i “vecchi” che ho conosciuto da quando ho memoria sono in grado di disquisire su argomenti scientifici o para scientifici, magari con convinzioni errate, ma se non altro con interesse. È un interesse che sembra invece mancare nella mia generazione.
Come ho detto, gli specialisti, quelli che veramente possono fare ricerca scientifica, rimangono sempre pochi. Abbiamo sempre sostenuto che anche il meno preparato fra i grottisti si rende utile alla speleologia scientifica, andando a rilevare e raccogliendo campioni in quei lontani recessi dei sistemi carsici, dove lo studioso con la pancia (parlo di me stesso) non arriverebbe mai. Questo, secondo me, avveniva più in passato che ora, semplicemente perché la mancanza di cultura speleologica ha ridotto la sensibilità dell’esploratore medio, il quale non ha più tanta voglia di sgroppare per fare felice un folle che passa il suo tempo a “contar i pei dei bacoli”. Le conoscenze che sono proprie della speleologia nel suo complesso lo sono sempre meno dei singoli speleologi. Personalmente non credo che tutto questo dipenda solo dal cambiamento dell’ambiente culturale, in cui sono cresciuti i miei coetanei ed ancor più coloro che hanno qualche anno meno di me; i ventenni e trentenni che fanno speleologia oggi sono figli della speleologia degli anni ’80, una speleologia che ha abbandonato progressivamente la coltivazione di certe conoscenze a favore di altre. Nei gruppi, e durante i corsi della fine degli anni ’80, si parlava molto di spit e poco di tettonica, molto di profondità e poco di condotte freatiche.
Sono concorde con Rino quando afferma che la nostra Federazione nella sua impostazione è più orientata a promuovere una speleologia di mostre che una di ricerca; ricordo molto bene le discussioni del 1997, come quelle in occasione della rifondazione del 2004. La Federazione è una associazione democratica, nata dall’iniziativa di un certo numero di soggetti (gruppi) e democraticamente la sua struttura riflette le priorità che i soci hanno stabilito. Quando la FSR è stata fondata, il primo obiettivo era fare di un insieme di associazioni qualcosa di coordinato, una vera speleologia regionale. Lentamente ci stiamo riuscendo. Pur nella convinzione che una speleologia di ricerca sia importante, non è possibile dare spinte che non derivino da scelte condivise; nessuno è padrone della FSR, se non gli speleologi della regione. È vero che, nel tentativo di dare delle linee guida per la ripartizione dei fondi derivanti dalla LR 27/66, la ricerca scientifica fa la cenerentola nelle proposte della speleologia, perché così ha voluto la maggioranza degli speleologi che si sono espressi in merito. C’è molto di peggio, a mio avviso, ovvero il fatto che siamo visti dalla pubblica amministrazione come associazioni sportive, non come fonte di informazioni, anche se la nostra attività è l’unica fonte di dati per un ufficio regionale: il Catasto.
Che fare dunque? Individuata una causa bisogna proporre quanto meno una soluzione. Credo che oggi il clima all’interno della stessa Federazione sia in gran parte cambiato. Durante l’Assemblea di gennaio abbiamo discusso l’ipotesi di un nuovo Convegno Regionale di Speleologia e questo è già un buon punto. Altro buon punto è, secondo me, il fatto che in quella occasione più di qualcuno abbia espresso perplessità, chiedendosi se la speleologia regionale produca abbastanza esplorazione e ricerca per riempire gli spazi di un convegno. La coscienza dei problemi è il primo passo per la loro soluzione, dice bene Rino che bisogna parlarne.
La Federazione Speleologica Regionale ha, a mio avviso, un solo strumento utile per tentare di cambiare le cose: fare divulgazione e promuovere la ricerca. Pongo volutamente in posizione preminente la divulgazione; sono convinto che solo uno speleologo dotato di cultura speleologica è ben disposto alla speleologia di ricerca. Dobbiamo innanzitutto riportare tale cultura speleologica all’interno della nostra regione ai livelli del passato. Non sarà un convegno regionale a produrre questo risultato, non qualcosa di localizzato nel tempo, utile a tirare le somme, dovrà essere un’opera continuata nel tempo e diffusa in modo capillare attraverso tutta la regione. C’è una condizione necessaria, però: la condivisione. La FSR non è fatta da sei persone, ma da venticinque gruppi. Facciamo una scelta e realizziamo un progetto insieme.
Giuseppe Moro